Opinionista:

Siamo in grado di piangere le nostre sciagure e di accanirci contro la cattiveria del mondo ma oltre non andiamo. È questo il vero vulnus di noi meridionali. Non siamo capaci di metterci insieme guardando all’interesse comune. Accecati quasi da un io pronto a piegarsi al passaggio del governante di turno per ottenerne i suoifavori, poco avvezzo, invece, a drizzare la schiena per reclamare diritti sacrosanti. Scendiamo in piazza, mai troppo numerosi, con le bandiere dei facinorosi di turno, senza capire che l’unica bandiera dietro la quale agitare il ritorno alla democrazia dei diritti e dei doveri e alla uguaglianza dei cittadini è quella dell’Italia unita. Il nostro paese è ancora troppo diseguale. La forbice tra Nord e Sud è ampia. I piccoli segnali di crescita al di sotto del Garigliano vengono usati per silenziare le poche voci che si levano. Siamo, per questo, ancora in una condizione di minorità rispetto al resto del paese, nonostante le molteplici attenzioni delle quali abbiamo goduto nel tempo. Le politiche meriodionaliste ci hanno visti diventare terra di conquista, frenando lo sviluppo di una ricchezza endogena duratura. Quello che dovrebbe seriamente preoccuparci è la condizione di eterni trainati e non la prospettiva di essere sganciati dal convoglio della crescita. Se guadagnassimo la capacità di sfruttare il potenziale che abbiamo, dal punto di vista naturalistico, storico e umano, l’autonomia regionale non sarebbe una minaccia. Al contrario potrebbe diventare lo strumento organizzativo attraverso il quale crescere in efficienza. Quella del regionalismo differenziato è un’ambizione coltivata da oltre un ventennio da tutte le forze politiche. La riforma della carta costituzionale nasce con la sinistra e la sua attuazione viene perseguita, con diverse modalità, da tutti i governi. La prospettiva non ha, dunque, una sua connotazione politica definita, mentre potrebbe averla una sua realizzazione non guidata. Il governo in carica sta lavorando, come il precedente, a rendere il regionalismo differenziato una norma regolatrice dei rapporti tra regioni e stato per uscire fuori dal decentramento infunzionali che ha caratterizzato il nostro sistema dal 1975 a oggi. La vera minaccia non è la maggiore autonomia, ma che questa venga concessa senza aver prima riorganizzato la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni, che lo stato ha il dovere di riconoscere su tutto il territorio nazionale. Quindi non armiamoci contro l’attuazione di una riforma costituzionale già vecchia e passata pure attraverso un referendum. Ma battiamoci perché questa sia l’occasione per ottenere finalmente la determinazione dei Lep, “il cui scopo è ridurre le asimmetrie tra autonomia e tutela dei diritti fondamentali dei cittadini” come ha sentenziato il Prof. Sabino Cassese, presidente del Comitato per la definizione dei livelli essenziali di prestazione. Alziamo la schiena, concentriamo gli sforzi e non disperdiamo l’obiettivo confondendo le azioni con le reazioni.