Opinionista:

Le dichiarazioni fatte giorni fa dal senatore Marcello Pera esprimono appieno il disagio che si vive nei palazzi romani. Le raccolgo quale invito a un supplemento di riflessione. “Questo non è premierato, questo è solo un pasticcio, spero che Meloni e gli altri leader lo riscrivano, è un testo inaccettabile” è quanto ha detto il senatore di FdI. Le riforme agitano la politica più che il Paese. L’ingegneria istituzionale e costituzionale non è materia di interesse popolare. L’argomento finisce nelle piazze per effetto trascinamento e travisamento. Da un canto c’è la pratica del gregge. Chi partecipa non sa bene perché marci, ma segue. Dall‘altro, complice la scarsa conoscenza e il poco approfondimento, si calano, attraverso una certa stampa compiacente, messaggi apocalittici o salvifici, a seconda della tendenza dell’editore, sugli effetti delle riforme. Si perde di vista la realtà. La proposta di riforma costituzionale per l’elezione diretta del premier e la proposta di legge ordinaria sul regionalismo differenziato camminano in parallelo non perché oggetto di uno scambio Lega/Fdi ma perché hanno una intrinseca connessione e sono portatrici di una evidente contraddizione. Per dirla in breve, è strano immaginare uno Stato che punti a rafforzare il potere istituzionale del capo del governo mentre sottrae a quest’ultimo il potere di decisione su materie fondamentali per garantire i principi della uguaglianza e della non discriminazione. Perché è questo che si rischia frammentando, con la regionalizzazione, l’istruzione, la tutela della salute, i rapporti internazionali e con l’Unione europea, la tutela e la sicurezza del lavoro, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia, la previdenza complementare e integrativa, per citare solo le principali funzioni. Quadro cui fa da cornice la regionalizzazione delle entrate tributarie in assenza di una preventiva definizione dei costi dei bisogni primari che lo stato ha il dovere di garantire. Il nostro sistema decentrato, così come è non funziona, ma così come lo ha voluto il legislatore del 2001, nemmeno. La riforma del Titolo V della Costituzione viene oggi rinnegata anche dai suoi autori, dal momento che la sinistra si dice pronta alle barricate. Penso, per questo, che sulla organizzazione dello stato sarebbe necessaria una controriforma costituzionale più che una legge ordinaria di attuazione. Altra questione, sempre citando Pera, è che il “nodo più intricato” resta quello della possibilità che al premier eletto possa subentrare un altro esponente dello schieramento vincente. Segnala sul punto l’ex Presidente del Senato che “il premier eletto è un problema” per come è stata scritta la proposta. Capisco che l’elezione diretta del capo del governo sia un pallino di FdI, ma il “semipresidenzialismo” che si intende promuovere, caratterizzato dall’elezione popolare di un Presidente titolare di poteri importanti e dal rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento, non sono garanzia di stabilità politica. Se è vero che, ripulito dall’ideologismo, quello della tenuta dei governi sia l’obiettivo principale della riforma in uno con il rafforzamento del potere del popolo, in questo caso, sarebbe sufficiente una legge ordinaria di modifica del sistema elettorale e un riordino dei regolamenti parlamentari per frenare il funambolismo degli eletti. Per queste e altre ragioni del tema delle riforme è necessario parlare senza speculazioni faziose. Serve che i cittadini tutti comprendano l’importanza dei cambiamenti che da esse possono derivare e che scelgano in che stato vivere.