Ursula von der Leyen, nel suo intervento alla Bocconi di Milano, ha cercato di sminuire la preoccupazione in merito alle osservazioni inviate all’Italia sul Recovery Plan. La Presidente dopo un affettuoso incipit – “Per noi l’Italia è importante” – ha annunciato che la lettera partita da Bruxelles all’indirizzo di Palazzo Chigi contiene SOLO l’invito al Governo a fare le riforme chieste (#PA #GIUSTIZIA #FISCO #LAVORO #PENSIONI) e a finalizzare a una strategia di crescita la spesa. E ora come la mettiamo?!
Queste sono da sempre le note dolenti del nostro Paese.
Le Riforme strutturali sono una precondizione per accedere alle risorse Ue nella politica di coesione. Non a caso l’Italia ha da anni sul tavolo questi pilastri e, ciclicamente e con intervalli sempre più brevi, vara riforme. Con questo, peraltro, aumentando lo stato di incertezza e conseguente instabilità del paese! È un escamotage che ci consente di guadagnare il tempo dell’entrata a regime e, nel frattempo, ottenere da Bruxelles il via libera a spendere. Quando, poi, il monitoraggio Ue si conclude, con la consueta bocciatura per volume e qualità della spesa, si ritorna, come nel gioco dell’oca, al punto di partenza. L’Italia negozia un termine per approvare nuove riforme e la giostra riparte. Tutto questo accade perché in realtà l’UE ha bisogno di noi e, quindi, fa la faccia cattiva ma poi tratta. Secondo i più questo è il punto di forza dell’Italia, per me è il punto di maggior caduta. Viviamo l’Unione in una dimensione di alterità, quasi come il cittadino che parla dello Stato come altro da sé. Invece di impegnarci per migliorare condizione di partenza e prospettive, utilizziamo risorse ed energie per sottrarci agli obblighi che noi stessi abbiamo contribuito a definire. Le coordinate costrittive (almeno così vengono avvertite in molti casi) dell’Unione sono state pensate per creare un’area geopolitica di stabilità socio-economica e per rafforzare quest’area nel mercato mondiale. E invece la cattiva abitudine dei giorni nostri che predilige l’inconsistenza dell’annuncio alla sostanza della proposta ci ha portato a dimenticare perché abbiamo fondato l’UE e perché abbiamo lavorato di diplomazia perché altri 21 paesi lo facessero e ad usare l’Unione come capro espiatorio delle nostre responsabilità. Se qualcosa non va è colpa di Bruxelles.
Dai racconti popolari sembra che nell’Ue ci siamo finiti per caso e che ci rimaniamo per debolezza, facendo, con tale semplicismo, piazza pulita di tutte le ragioni storiche, politiche, sociali ed economiche sottese a uno sforzo di condivisione di alcuni asset strategici in una dimensione sovranazionale.
Ora l’occasione di una maggiore disponibilità di risorse e di un temporaneo allentamento dei parametri di stabilità e concorrenza interna rischia di andare sprecata a causa di questo nostro pessimo modo di interpretare l’appartenenza alla Unione.
Siamo a Dicembre e siamo senza un piano che risponda ai requisiti. È stato apposto un vincolo di segretezza ai lavori in corso, come ha detto il ministro delle Politiche Europee, per non turbare gli equilibri. Questo a dispetto di quella obbligatoria concertazione dal basso che dovrebbe animare la redazione del piano. Il Governo, in più, annuncia di voler costituire una task force di esperti o una cabina di regia per trasformare in meno di un mese l’elenco della spesa prodotto a settembre, e bocciato dalla Ue, in un piano strategico di ricostruzione e crescita.
Forse dovremo ringraziare Polonia e Ungheria che con le loro battaglie sui valori comuni stanno rallentando il processo accordandoci un secondo tempo per recuperare il ritardo accumulato. Perché noi intanto sui quei 209 miliardi contiamo, perché oltre al debito, che aumenta, non abbiamo espresso capacità diverse per coprire i maggiori bisogni del sistema nel dopo-COVID.