L’audizione al Senato, in Commissione Politiche Ue, del Ministro per il Sud, Mara Carfagna, riapre il tema antico della “incapacità di spesa” del nostro Paese. Sui circa 50 miliardi di Euro di fondi SIE del ciclo di programmazione 2014/20 l’Italia ha speso 23,7 miliardi, pari al 47% del totale. Meno della metà delle risorse a disposizione nonostante l’accelerazione impressa dalla semplificazione delle procedure dettata dalla esigenza di far fronte ai nuovi bisogni legati alla crisi da pandemia. In meno di un anno e mezzo dovremmo essere in grado di spendere il restante 53%. Il Ministro annuncia un commissariamento degli Enti locali affidato all’Agenzia di Coesione. Una corsa contro il tempo che confligge con l’attesa di un’efficace azione di investimenti finalizzati a recuperare il divario sociale, economico e territoriale esistente tra le diverse aree del paese.

Va considerato, infatti, anche che il volume delle somme impegnate, per le quali sono state avviate le procedure di selezione dei progetti, è fermo al 77%. Sono 11 miliardi di speranze e di bisogni non raccolti. Probabilmente si troveranno meccanismi finanziari per “trascinare” i fondi non spesi nella prossima programmazione o di dirottarli su progetti cd “coerenti” con le finalità della programmazione ripescati tra i vecchi progetti non realizzati. Tutte operazioni che applichiamo da anni senza mai affrontare il problema alla radice.

Peraltro questa conclamata incapacità è antitetica alla corsa alle risorse del PNRR. Le regole del Recovery Fund sono più stringenti. Le condizionalità legate alle riforme li rendono irraggiungibili. Eppure non c’è stata e non c’è una reazione responsabile di fronte a un tema che è esiziale per la ripartenza dell’Italia.

Il nostro rapporto con l’UE non è mai diventato maturo. Abbiamo continuato a confrontarci con la politica di coesione, pilastro dell’Unione (1/3 del bilancio europeo), utilizzando modelli di cassa tipici di una contabilità semplificata. Diceva Einstein “Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati”. Le nostre programmazioni non sono mai oneste e lungimiranti. Esse raccontano sogni, sommano promesse e hanno il respiro di un tweet. Per uscire da questo tunnel chi governa il paese dovrebbe avere il coraggio di ripulire i cassetti delle vecchie promesse e buttare i progetti non più realizzabili, ripartire con una programmazione nuova che sia compatibile con gli obiettivi di sostenibilità, digitalizzazione e inclusione della strategia 2027/2030 (Agenda Europea 21/27 e Agenda per lo sviluppo sostenibile 2030), utilizzare gli strumenti finanziari per il rafforzamento amministrativo dei nostri uffici e per l’assistenza tecnica, senza aumentare “precariato politico” ma con progetti di affiancamento delle nostre risorse umane da parte di esperti europei. Invece le prime risorse che vanno via, a tutti i livelli, sono quelle per consulenze e progettazioni, mentre le opere restano al palo.

Le riforme indicate dalla Commissione nelle raccomandazioni all’Italia dovrebbero essere la priorità di tutte le forze politiche presenti in Parlamento per scrivere la strategia paese e costruire il futuro per le Next Generation(s).

Senza l’efficienza del sistema avremo sempre un differenziale competitivo con il resto del mondo. Potremo continuare a prendercela con l’Europa Matrigna, finché l’economia privata continuerà a tenerci in vita, ma prima o dopo arriveremo a dover fare i conti con quello che siamo.
I rifiuti di Albertini a Milano o di Manfredi a Napoli non sono frutto di una “crisi di vocazione”, come qualcuno ha scritto, ma la denuncia che la vocazione ad esercitare la politica con competenza, indipendenza e onestà intellettuale non è moderna.