Sulle dichiarazioni di Giovannini degli ultimi giorni in merito al surplus di risorse del Pnrr destinate al Sud nutro più di una perplessità e, ben sapendo che con i se e con i ma non si affrontano né tantomeno si risolvono i problemi, credo utile proporre soluzioni.
Il punto è che la c.d. clausola del 40% è di difficile monitoraggio. Come segnala Svimez ogni ministero ha una declinazione a sé e ogni misura viene gestita con bandi che solo all’esito della procedura potranno dire se la quota di appannaggio del mezzogiorno è stata rispettata e quanto i paletti inseriti nelle procedure di selezione siano veramente efficaci per indirizzare territorialmente la risposta. Basta guardare quello che sta accadendo sui fondi per gli asili o su quelli per le ZES, per citare solo le ultime segnalazioni in ordine di tempo.
Parto da una prima osservazione sulla composizione del plafond totale di circa “circa 230/240 miliardi messi a disposizione dal NGEU” precisando, peraltro che ad esso si sommano “i fondi ordinari strutturali del nuovo piano di sette anni del bilancio ordinario europeo, che ammontano a circa 8/10 miliardi di euro all’anno per i prossimi sette anni” (Fonte OReP).
Il Recovery Plan attinge a: Recovery Fund, ReactEu, JustTransitionFund, Fondo Sviluppo e Coesione e Fondo Nazionale Complementare. Aggiungo che per raggiungere gli obiettivi di spesa si è fatto rientrare nel totale 2021 la spesa sostenuta nel 2020 per i progetti in corso. Un’operazione contabile questa che non aggiunge risorse, ma le svincola semplicemente dalle condizionalità Ue. Semplificando l’analisi osservo che ReactEu e JustFund sono recuperi di risorse non spese della programmazione 14/20, che, per essere equamente distribuite, dovrebbero essere restituite per circa il 45% alle regioni meridionali. I 15,6 miliardi di FSC dovrebbero andare per l’80% al Sud. I 30miliardi del FNC dovrebbero andare per il 34% al Mezzogiorno. Detto questo, se calcoliamo che, sul totale, 143,2 miliardi sono per “nuovi progetti”, i restanti 100 miliardi circa sono per riforme (non tutte a costo zero) e per “progetti in corso”, vale a dire progetti per i quali non si è fatto alcuno sforzo di visione futura quanto piuttosto di retrospettiva, andando a riparare a ultraventennali ritardi di investimento, come nel caso della AV/AC Napoli-Bari, della Salerno-Reggio Calabria o della Palermo-Catania, è inevitabile concludere che sicuramente sempre investimenti al Sud sono, ma non aggiuntivi rispetto al piano infrastrutture di sempre.
Cosa intendo dire? Che la vera Sfida Mezzogiorno si misura su programmazione e investimenti nuovi in digitalizzazione, sicurezza e innovazione della PA (Missione1), Istruzione e servizi di base (Missione 4), Occupazione (Missione 5) e Sanità (Missione 6) più che sulle Infrastrutture – Missione 3 – laddove è facile emozionare con grandi numeri dietro i quali è più facile nascondere l’assenza di una strategia di sviluppo integrato, sostenibile e intelligente dei territori.
E per quanto al metodo, la sfida è sulla capacità di superare l’errore della scelta di fare di Regioni ed Enti Locali dei semplici beneficiari/attuatori, che, peraltro, è in controtendenza rispetto a quelle operate in sede di regolamenti UE per la politica di coesione. Nell’Agenda 21/27 Bruxelles ha infatti molto territorializzato programmazione, controllo e gestione.
Per far questo, posto che le risorse finanziarie ci sono, è necessario risvegliare il protagonismo delle amministrazioni territoriali, puntando in primo luogo sul rafforzamento della capacità amministrativa degli enti locali con “azioni di sistema” più che con “sistem-azioni”. La carenza di personale e competenze è il problema forse più avvertito rispetto alla riuscita del PNRR. L’ANCI ha, infatti, chiesto ed ottenuto (con un emendamento in finanziaria) di estendere il meccanismo di autorizzazione ad assumere (o acquisire collaborazioni) oltre i normali vincoli del dl 80 (art. 1), svincolandolo dalla procedura di autorizzazione (con passaggi: ente attuatore-ministero titolare-Mef) farraginosa e strettamente legata al quadro economico di ciascuna opera/intervento, e con oneri a carico di risorse statali connesse al PNRR, così come avviene per le amministrazioni centrali “titolari”. Il via libera ad assunzioni a termine “fuori dalle regole” che è stato dato due giorni fa non viaggia fortunatamente da solo. Ad esso ha fatto seguito, infatti, il programma parallelo c.d. “Ri-formare” che lavora sul personale stabile di comuni, province e regioni per dare loro le nuove competenze necessarie, per esempio, a non ripartire sempre dall’anno zero ad ogni programmazione Ue. Solo quegli Enti che sapranno miscelare i due strumenti, provvedendo sia a un arruolamento straordinario a termine, per affrontare l’immediato, e a un profondo percorso di efficientamento delle competenze in organico avrà messo visione e futuro nella propria azione e investito e non speso le risorse.
Dobbiamo acquisire competenze se vogliamo reclamare provvidenze.
Capisco che l’abitudine ad alimentare sacche di precariato high level immettendo negli uffici pubblici persone a contratto sui progetti finanziati dalla Ue è difficile da superare. Ma replicarla anche per il PNRR non è una idea saggia. Il PNRR non è un progetto, ma un processo di investimento materiale e immateriale. Da esso ne usciremo dannatamente indebitati se non verranno usate le leve delle riforme e raggiunti i risultati che da esse ci si aspetta sul piano della riduzione dei costi della PA, grazie al suo efficientamento, della Giustizia, con aumento del personale e privatizzazione e riduzione tempi processi, del Fisco, con semplificazione delle procedure e riduzione delle aliquote, e del Lavoro, puntando su funzionalità CPI, taglio costo lavoro, estensione ammortizzatori sociali ai contratti a termine.