L’implosione dei partiti, di cui hanno iniziato a parlare un po’ tutti dopo la non esemplare performance della settimana “quirinalizia”, non è fatto di attualità. La mina è deflagrata oltre 30 anni fa, quando la politica è stata condannata senza processo e i partiti sono stati raggiunti dalla pena accessoria della “interdizione” da ogni ufficio pubblico.  Ed è da allora che avremmo dovuto porci il problema dell’incertezza del futuro in assenza di luoghi di elaborazione del pensiero, di selezione della rappresentanza e di sintesi dei bisogni. Il Paese si è trascinato in uno scialbo bipolarismo vivacizzato unicamente dalla presenza di figure carismatiche come Berlusconi. Ma il carisma non si trasferisce, è innato. Oggi ci confrontiamo con tutto questo e facciamo i conti con la pesante responsabilità di aver voluto ergerci a giudici popolari di un sistema paese facendo razzia di tutto fino ad arrivare a mettere sul patibolo merito, competenza, esperienza, in nome di un qualunquismo esasperato. È tardivo il timore di quelli che solo ora si preoccupano della debolezza che genera l’assenza di battaglie identitarie e culturali e guardano con preoccupazione alla sfida del PNRR. È antico il tema della “incapacità di spesa” del nostro paese, causa la evanescenza della funzione di guida della politica di questi anni. Anche la carenza di competenze e risorse umane, che denuncia l’Associazione dei Comuni Italiani, attraverso il suo Presidente, Antonio De Caro, è l’effetto della incapacità di programmare la spesa e investire le risorse piuttosto che la causa. Reclamare oggi maggiori risorse umane nei Comuni, attraverso l’uso diretto dei fondi del PNRR e lo sblocco delle assunzioni, non è un modo per accrescere le competenze ma una via per aumentare le presenze. Stesso discorso vale per il Mezzogiorno che cerca di ottenere quell’ipotetico 40% di risorse del PNRR intervenendo sui singoli bandi. Si continua a discutere di risorse, siano esse finanziarie che umane, e non di idee e lo si fa a valle della programmazione. Aristotele Onassis insegnava che “Non si deve correre dietro al denaro; bisogna andargli incontro!”. Altrimenti ti ci fai il bagno come Paperon de’ Paperoni. Vale la pena ricordare che dei circa 50 miliardi di Euro di fondi SIE del ciclo di programmazione 2014/20 l’Italia, al 31.12.2021, aveva speso 23,7 miliardi, pari al 47% del totale. Meno della metà delle risorse a disposizione nonostante l’accelerazione impressa dalla semplificazione delle procedure dettata dalla esigenza di far fronte ai nuovi bisogni legati alla crisi da pandemia. Entro il 31.12.2023, cioè meno di un anno e mezzo, dovremmo essere in grado di spendere il restante 53%. E la soluzione sembra essere stata trovata in una sorta di commissariamento degli Enti locali affidato all’Agenzia di Coesione per l’Agenda Europea 14/20 e a una Governance tutta centralizzata per il PNRR. Una corsa contro il tempo che confligge con l’attesa di un’efficace azione di investimenti finalizzati a recuperare il divario sociale, economico e territoriale esistente tra le diverse aree del paese. Va considerato infatti anche che il volume delle somme impegnate, per le quali sono state avviate le procedure di selezione dei progetti, è fermo al 77%. Sono 11 miliardi di speranze e di bisogni non raccolti. Probabilmente si troveranno meccanismi finanziari per “trascinare” i fondi non spesi nella prossima programmazione o di dirottarli su progetti cd “coerenti” con le finalità della programmazione ripescati tra i vecchi progetti non realizzati. Tutte operazioni che applichiamo da anni senza mai affrontare il problema alla radice. Peraltro questa conclamata incapacità è antitetica alla corsa alle risorse del PNRR. Le regole del Recovery Fund sono più stringenti. Le condizionalità legate alle riforme li rendono irraggiungibili. Eppure non c’è stata e non c’è una reazione responsabile di fronte a un tema che è esiziale per la ripartenza dell’Italia. Il nostro rapporto con l’UE non è mai diventato maturo. Abbiamo continuato a confrontarci con la politica di coesione, pilastro dell’Unione (1/3 del bilancio europeo), utilizzando modelli di cassa tipici di una contabilità semplificata. Diceva Einstein “Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati”. Le nostre programmazioni non sono mai oneste e lungimiranti. Esse raccontano sogni, sommano promesse e hanno il respiro di un tweet.

 

Per uscire da questo tunnel il Governo dovrebbe usare la inevitabile revisione dei “target” per ripulire i cassetti delle vecchie promesse e buttare i progetti non più realizzabili. I territori devono ripartire con una programmazione che sia compatibile con gli obiettivi di sostenibilità, digitalizzazione e inclusione della strategia 2021/2030 (Agenda Europea 21/27, PNRR e Agenda per lo sviluppo sostenibile 2030), e utilizzare gli strumenti finanziari prima di tutto per il rafforzamento amministrativo degli uffici periferici, senza aumentare “precariato politico”. Invece le prime risorse che vanno via, a tutti i livelli, sono quelle per consulenze e progettazioni, mentre le opere restano al palo. Le riforme indicate dalla Commissione nelle raccomandazioni all’Italia dovrebbero essere la priorità di tutte le forze politiche presenti in Parlamento per scrivere la strategia paese e costruire il futuro per le Next Generation(s).

 

Senza l’efficienza del sistema avremo sempre un differenziale competitivo con il resto del mondo. Potremo continuare a prendercela con l’Europa Matrigna, finché l’economia privata continuerà a tenerci in vita, ma prima o dopo arriveremo a dover fare i conti con quello che siamo.

 

Il problema è che la vocazione ad esercitare la politica con competenza, indipendenza e onestà morale oltre che materiale non è moderna da troppo tempo.