Posto che i quesiti erano impegnativi, che sono stati spiegati poco e male e che sono stati oggetto di sfide
tra partiti, quei quasi 11 milioni di cittadini che sono andati a votare in una calda e soleggiata domenica di
Giugno lanciano un forte messaggio contro la rassegnazione dei più di fronte alla lenta e inesorabile agonia
del nostro sistema democratico.
Sono lontani i tempi in cui ad andare a votare era il 94% degli aventi diritto. Dal 1948 a oggi a quello scarso
6% di assenti al voto, dato fisiologico, si è aggiunto oltre il 22% degli elettori, che ha deciso di non esercitare
il proprio diritto a determinare la rappresentanza politica. Nel 2018 siamo arrivati al 28% di astensionismo.
Domenica erano 51.533.195 i cittadini, di cui 25.039.273 uomini e 26.493.922 donne, che avrebbero potuto
(e dovuto) esprimere il proprio punto di vista sui 5 quesiti abrogativi di altrettante norme. Sono stati invece
10.821.970, il 20,9%, quelli che lo hanno fatto. Ritengo che siano una cifra considerevole. Basti pensare che
in Italia solo due partiti raggiungono questa soglia.
A riprova del fatto che il problema è culturale (lo Stato non sono io!) più che costituzionale (la disciplina
referendaria va cambiata) l’affluenza al voto per eleggere i sindaci di 975 comuni, di cui 26 capoluoghi e 142
superiori a 15.000 abitanti, è stata del 54%. Quindi per il voto amministrativo, sui circa 9 milioni di aventi
diritto si sono recati alle urne solo 4.925.700 cittadini.
L’allarme non riguarda il referendum ma la voglia di partecipare alla vita delle istituzioni. Già da tempo si
discute del tema della società dei diritti senza doveri; aggiornando la riflessione dovremmo iniziare a
parlare della società dei diritti comodi!
Il “flop storico”, come hanno titolato le maggiori testate italiane, non è una notizia. E’ una fake.
I dati vanno contestualizzati e i numeri analizzati.
Dal 1946 sono stati 72 i quesiti referendari abrogativi, proposti ai cittadini in 17 appuntamenti di voto.
In 9 casi non si è raggiunto il quorum. E l’affluenza registrata è stata, prevalentemente tra il 23 e il 32 per
cento. Per fare un esempio concreto, nel 2008 l’astensione alle elezioni politiche ha segnato il 22%; il
successivo referendum del 2009 ha visto partecipare il 23% degli aventi diritto.
Il 21% di domenica è un dato coerente con l’astensione dal voto del 28% dei cittadini nel 2018.
Un’altra riprova è che anche i referendum che hanno raggiunto il quorum seguono la china della più
generale presa di distanze dal voto:
1974 – Divorzio 87,7%
1978 – Finanziamento ai partiti 81,2%
1981 – Aborto 79,4%
1985 – Taglio punti contingenza/scala mobile 77,9%
1987 – Nucleare/Responsabilità Magistrati 65,1%

1991 – Riduzione preferenze camera 62,5%
1993 – Stupefacenti/Finanziamento partiti/Elezioni senato 76,9%
1995 – Trattenute contributi sindacali/Orari esercizi commerciali/Concessioni televisive 58,1%
2011 – Servizi pubblici locali/Nucleare 54,79%.
E’ maledettamente triste che gran parte della popolazione pensi che il referendum sia un modo per
scaricare sulle spalle del popolo la responsabilità della politica. Un ragionamento povero. Il referendum è il
primo strumento di democrazia diretta del quale disponiamo. Purtroppo abbiamo una ormai scarsa
consuetudine con l’impegno civico e questo comporta che lasciamo anche i referendum nelle mani della
politica. L’iniziativa viene appaltata ai partiti, che ne fanno buon uso per le proprie ragioni elettorali. Privi di
slancio autonomo, comodamente prendiamo poi le distanze dal voto referendario.
Mi ha sorpreso amaramente in queste settimane leggere tanti commenti sulla impossibilità per i cittadini di
comprendere gli effetti delle abrogazioni proposte. Eppure sono tre anni che tutti sono titolati a disquisire
su fenomeni pandemici, proliferazione dei virus, manipolazione genetica, costruzione in laboratorio di geni
e antigeni, vaccini e, cosa ancor più sorprendente, da 4 mesi, anche a pontificare su tattiche di guerra,
armamenti, linee di difesa, strategie geopolitiche. Perché tutto questo si fa da casa o dal mare, peraltro
nascosti dietro lo schermo dei social.
Il voto meriterebbe una diversa considerazione e i suoi esiti dovrebbero essere trattati con più rispetto da
parte di chi fa informazione.
7.900.000 italiani hanno detto che vorrebbero che le funzioni dei magistrati, fossero distinte tra pm e
giudici, che vorrebbero che la professionalità dei magistrati fosse oggetto di valutazione non solo
autoreferenziale e che l’elezione dei componenti del CSM debba essere meno politicizzata.
Un voto è sempre una cosa seria. Lo sforzo di chi ha partecipato e i costi che tutti abbiamo sostenuto
meritano di essere valorizzati.