Una campagna elettorale è il momento giusto per far pesare a chi si candida a rappresentarci, quanto le disuguaglianze che attraversano il paese siano una minaccia per l’intero sistema e un freno alla crescita.

Questa campagna elettorale è l’occasione per ridurre la distanza tra Nord e Sud, rialzando la testa e reclamando ciò che uno Stato fazioso e distratto non ha ben distribuito.

Ottenere che un giovane del Sud abbia le stesse opportunità di studiare di uno del Nord, che un anziano abbia la stessa assistenza, che una donna sia libera di scegliere di essere madre e lavoratrice, che un malato possa avere tutte le cure necessarie, che un’impresa possa investire sullo sviluppo contando su una PA efficiente e servizi e infrastrutture funzionali, vuol dire costruire il futuro.

E, invece, non sento in nessun discorso elettorale un programma chiaro su come restituire ai cittadini del Mezzogiorno il diritto alla istruzione, alla formazione, alla salute, al lavoro, alla mobilità, alla sicurezza, reintegrandoli del patrimonio di diritti sociali, economici e politici, che la Costituzione iscrive nella sua Parte Prima.

Non trovo in nessun candidato quella doverosa assunzione di responsabilità rispetto alla perdurante violazione dell’art. 117 della Costituzione che dal 2001 stabilisce che lo Stato deve garantire servizi e prestazioni essenziali in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, per consentire il pieno rispetto dei diritti sociali e civili di tutti i cittadini.

Si litiga invece sul Reddito di Cittadinanza, alimentando una pericolosa confusione che porta unicamente a una guerra tra poveri.

Sacrosanta è la battaglia da affrontare, senza se e senza ma, per dare a ciascuno la possibilità di una vita dignitosa. Riconoscere e garantire il diritto di chi non può lavorare e guadagnare ad essere sostenuto dallo Stato è principio fondamentale della nostra Costituzione e valore cardine della nostra cultura cristiana.

Investire risorse pubbliche per accompagnare i più fragili è crescita. Perché lo Stato perde ogni volta che lascia qualcuno per strada.

Elargire denaro della collettività ai furbi è immorale. Perché, ancor più in tempi di crisi, vuol dire togliere a chi ne ha bisogno. Già trovare copertura per un reddito dignitoso per i circa 2 milioni di famiglie e per i 6 milioni di individui non è facile. Se devi poi estenderlo anche a coloro che, pur potendo, non fanno nulla per uscire dalla condizione di povertà, non hai visione.

È per queste ragioni che sentire che il discrimine elettorale tra Nord e Sud lo farà il reddito di cittadinanza, questo reddito di cittadinanza che da poco o niente ai veri poveri per distribuire risorse a chiunque senza una prospettiva, mi spinge a parlarne.

Il Reddito di Cittadinanza, così come è, cioè uno strumento di assistenza generalizzato che non offre futuro a nessuno, piace a chi incarna la metafora del suddito che non riesce ad emanciparsi e a diventare cittadino.

Mostra infatti il volto indolente e pigro di una certa parte di noi, che preferisce “arrangiarsi” e accontentarsi più che impegnarsi per i propri diritti.

Il reddito di cittadinanza distribuito senza controllo è una toppa per tamponare antiche falle, senza affrontare il tema della uguaglianza dei diritti e dei doveri e delle pari opportunità.

Apriamo gli occhi.

Il Reddito di Cittadinanza non ha cancellato la povertà. Di contro ha aumentato la spesa e il debito pubblico. Dall’ultimo rapporto Istat emerge che nel 2021, sono in condizione di povertà assoluta poco più di 1,9 milioni di famiglie (7,5% del totale da 7,7% nel 2020) e circa 5,6 milioni di individui (9,4% come l’anno precedente).

Anche nel confronto con il 2019 il dato è più o meno stabile.

La nostra bellissima Costituzione tiene ben distinto il principio secondo cui “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” (Art. 38) dal principio secondo cui “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (Art. 4).

Cioè al diritto di chi non può, fa da contraltare il dovere di chi può lavorare.

Mettere insieme gli uni e gli altri in un unico contenitore porta il sistema al cortocircuito. I primi non avranno riconosciuto pienamente il proprio diritto e i secondi non impareranno a fare il proprio dovere.

Lo Stato deve sostenere anche educando i propri cittadini ad essere tali con dignità e onestà.

Oggi abbiamo un importante strumento sul quale fondare la pretesa di giustizia sociale. Il Piano Nazionale di Ripresa e resilienza è nato per superare le diseguaglianze tra aree del paese.

Ma per finalizzare ai risultati questo importante strumento, non basta la pagella dei “Target” e delle “Milestone”, serve la ferma volontà di far “atterrare” (come si dice in gergo) concretamente gli 84 miliardi del PNRR al Sud, con un piano di investimenti territorializzati e con procedure “assistite”. L’ assegnazione delle risorse prevista nel piano rimarrà teorica enunciazione se non si dichiara con onestà intellettuale che il Sud ha bisogno di assistenza tecnica e di procedure guidate per partire.

Il Rischio è che anche le risorse del PNRR a un certo punto vengano riallocate verso altri progetti, come avviene da anni con i fondi della politica di coesione.

Oggi più che mai serve, pur con i limiti di una legge elettorale antidemocratica, scegliere competenza e onestà intellettuale.

Le promesse elettorali passano, i problemi restano.