La Sanità in Campania ha fatto ancora parlare di sè. Il fatto che le questioni trite e ritrite della scarsità delle risorse, della mancanza di personale, delle lunghe liste d’attesa, dell’impotenza dei pronto soccorso, del turismo dei pazienti venga affrontato nelle convention politiche, riduce la “malasanità” a fatto bagattellare e lo confina nell’alveo delle questioni su cui consegnarsi alla rassegnazione. Di governo in governo c’è un rimpallo di accuse che mostra il lato debole della politica. Da quando con la legge 833/1978 è stato introdotto il sistema universalistico delle prestazioni, l’Italia è alla ricerca di formule capaci di garantire l’applicazione dei principi della universalità, appunto, della uguaglianza e della equità, che di esso sono l’ossatura. E, invece, è uno dei principali e più dolorosi parametri sui quali si misura il divario Nord-Sud. Quel che serve è mettere il paziente al centro di ogni progetto assistenziale, valorizzare, con la meritocrazia, tutti gli operatori che lavorano nella sanità e che ancora “credono” nel loro lavoro e avere la giusta visione dei bisogni, evitando di compartimentare le criticità. La presa incarico deve essere unitaria. Negli ultimi tempi, ancor più con il Covid, a finire sotto accusa è stata la medicina territoriale e la rete dei medici di base. La linea d’attacco vede il medico di famiglia abdicare alla propria funzione filtro. Sarà pur vero in qualche caso, ma non può dirsi questa la causa dell’intasamento di strutture ospedaliere e dei pronto soccorso. Non a caso la missione 6 del Pnrr punta tutto sul potenziamento del territorio, tralasciando le criticità legate a piante organiche, accesso alla professione, ridisegno della geografia ospedaliera, adeguamento dei contratti e tanto altro. Si procede, nell’alternarsi della parti al governo, a scaricare su chi c’era, più comodo che preoccuparci di tracciare una strada per chi ci sarà. Così facendo, mentre il mondo è cambiato, l’organizzazione del sistema sanitario non ha fatto progressi. Negli anni, l’Italia è invecchiata ed è aumentata l’aspettativa della vita; la prospettiva, valutato il rapporto tra nascite e morti, è quella di una tendenziale caduta demografica; i viaggi della speranza dalle regioni più povere verso quelle più ricche sono aumentati considerevolmente. Di fronte a questi scenari, purtroppo il realismo e la operatività della politica hanno latitato e la scelta più naturale è stata quella di redistribuire la spesa sociale, operando un trade off tra spesa sanitaria e spesa pensionistica, a svantaggio della prima. Il criterio principale di riparto della spesa è rimasto, fino a oggi, quello della “spesa storica”, mentre i nuovi criteri di ripartizione del fabbisogno sanitario nazionale standard, fissati dall’ultimo decreto del 30.12.2022 e applicabili dal 2023 (con pesi differenziati) devono ancora diventare operativi, perché bisogna attendere che “le informazioni relative ai medesimi criteri risulteranno disponibili e/o utilizzabili.”! Quindi attualmente la risposta sanitaria ai bisogni di salute non tiene conto di: “popolazione residente e frequenza dei consumi sanitari per età… tassi di mortalità della popolazione … indicatori relativi a particolari situazioni territoriali …; … quali incidenza della povertà relativa individuale; livello di bassa scolarizzazione; tasso di disoccupazione della popolazione.”. La loro acquisizione rappresenterebbe un passo avanti verso la nuova concezione del benessere dell’abitare, che tiene conto prima di ogni altra cosa del e , e che punta su salute, ambiente, sicurezza, opportunità di lavoro e di crescita
Opinionista: