Riformare la Costituzione non è un tabù e attuare il titolo V della Costituzione non è rivoluzionario. Ma quando si tocca l’assetto ordinamentale del Paese e i suoi organi costituzionali e politici, si devono superare gli steccati. La maggioranza deve ricercare un consenso larghissimo del Parlamento e le minoranze non devono resistere, ma cogliere l’occasione
per dimostrare di esistere.
Sulla Riforma del Premierato – ddl Casellati – e sulla regolamentazione del Regionalismo Differenziato – ddl Calderoli -, invece, lo scontro che accompagna la discussione è accesissimo. E sempre più lo diventerà nelle prossime settimane se si confermerà un timing parlamentare accelerato per arrivare al voto prima delle elezioni europee. Il proposito non aiuta ad
affrancare il tema dalla degenerata dinamica maggioranza/opposizioni e liberare il dibattito da totem, feticci, retroscenismi e dimenticanze. Non di analfabetismo costituzionale trattasi, ma di miopia politica. Questa è la prima grande questione civile che il paese deve affrontare se vuole organizzare democraticamente e paritariamente la vita della propria comunità. Il nostro sistema fa acqua da tanto tempo, eppure nonostante le riforme ordinamentali e costituzionali siano sempre state tra i primi punti dei programmi elettorali, non sono mai state attuate e, quelle arrivate in porto, hanno sporcato la Costituzione senza promuovere democrazia e stabilità.
Il Regionalismo Differenziato punta al riconoscimento di maggiori forme di autonomia alle Regioni, mentre il governo dovrebbe puntare a più elevati livelli di efficienza delle Regioni. La storia di questa legge è tale da imbarazzare maggioranza e opposizioni. Per questo il transito parlamentare si colora di inciampi e contraddizioni. La proposta in discussione affonda le sue radici nel 2001, in quella riforma costituzionale, fortemente voluta dal Governo Prodi. Diventa bandiera del Secessionismo Leghista. Rinasce con la spinta di Emilia Romagna, Vene-
to e Lombardia e il sostegno del Governo Conte. Oggi, portata in Parlamento dal Governo Meloni, viene osteggiata “a prescindere” da tutte le opposizioni. Senza alzare muri, quel che serve è ricordare che il progetto, a federalismo fiscale inattuato, non può essere realizzato perché incostituzionale.
E poi rivedere sia la portata delle materie che si trasferiscono, dall’istruzione ai trasporti, che l’indebolimento della capacità di risposta del paese, con la frammentazione dei centri decisionali. Infine chiudere il tema del finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni – Lep. Non basta definirli.
In questo modo si potrebbe rendere il passaggio un momento di riorganizzazione funzionale del paese, senza trasformare il dibattito in un campo di battaglia. Perché a terra resteranno solo i territori più fragili.
Parallelamente cammina la riforma costituzionale per la elezione diretta del Presidente del Consiglio, che si porta dietro la disciplina del meccanismo di fiducia e la inversione del rapporto Governo-Parlamento, tralasciando di riorganizzare i rapporti tra l’esecutivo e il legislativo e di ristabilire un equilibrio democratico tra maggioranza e minoranze. Le due
iniziative prospettano, evidentemente, problemi di incoerenza tra di loro. Da un canto, la spinta centralizzatrice della riforma costituzionale e dall’altro la spinta autonomista del regionalismo, rivelano un legislatore strabico. La discussione viene brutalizzata per denunciare uno scellerato patto tra alleati. E questo confonde ancor di più i piani, costituzionale e or-
dinario, sui quali lavorano i due disegni e non consente di mettere a fuoco i veri problemi per risolverli. È legittimo che la maggioranza “politica”, che ha vinto le elezioni, presenti la propria visione di assetto ordinamentale del paese, proponendo riforme e attuazioni della Carta. Ma l’approccio non può essere ideologico, bensì dialogico, perché solo un lavoro plurale può produrre principi e valori non contingenti. La Costituzione del 1948 fu approvata con 458 voti favorevoli su 520 votanti, pari all’88%. Lezione non imparata dai legislatori successivi, che hanno messo mano alla Costituzione con voti di maggioranza, senza tenere conto dei pesi e contrappesi creati dalle madri e dai padri della Costituzione perché la casa degli italiani fosse in equilibrio. Dal 1° gennaio 1948, la Costituzione italiana ha saputo reggere e rappresentare, anche nei momenti di maggiore pressione, una «bussola» per orientare il rapporto tra autorità e libertà, esprimendo quella “bellezza” raccontata dal grande Benigni. Dagli anni di piombo alla pandemia, la nostra Carta si è rivelata sempre assolutamente funzionale alle necessità, pur nella diversità dei tempi e degli eventi. Il modo di procedere dei legislatori moderni ha già prodotto, in molti casi, strappi e slabbrature, che hanno indebolito il modello parlamentare e contribuito alla delegittimazione della rappresentanza. C’è bisogno di un cambiamento di metodo se veramente l’intenzione riformatrice è quella di migliorare l’assetto
del Paese.