I cortei di donne che espongono i risultati non raggiunti e che reclamano nuovi riconoscimenti fanno torto ai progressi realizzati

 

Non ho mai pensato che buttarsi giù aiuti a tirarsi su. I cortei di donne che espongono i risultati non raggiunti e che reclamano nuovi riconoscimenti fanno torto ai progressi realizzati e soprattutto alla speranza di futuro nella quale dobbiamo continuare a credere per impegnarci.

Fa bene sapere che il 97% delle economie del mondo ha colmato più del 60% del proprio divario, che i progressi più significativi si sono registrati nell’empowerment politico, che l’Europa ha colmato il 75% del suo divario, con un miglioramento complessivo di +6,2 punti percentuali dal 2006, e che in Italia il divario residuo è del 29,7%. E ancora è utile segnalare che nel nostro paese l’occupazione femminile è in crescita, nell’ultimo anno piu 6,4%, e che nello stesso periodo le violenze sulle donne si sono ridotte. Il passo è lento ma il trend è positivo.

Non so se ci vorranno 134 anni per raggiungere la completa parità nel mondo, come stimato dal Global Gender Forum, ma una cosa è certa: la strada è aperta e va percorsa fino in fondo. Le donne che hanno combattuto, circa 80 anni fa, per il diritto al voto non pensavano ai 76 anni che avrebbero dovuto attendere per vedere una donna presidente del consiglio!

Io stessa non pensavo, negli anni tra il 2001 e il 2003, quando fui tra i promotori della modifica dell’art. 51 della Costituzione, che 22 anni dopo, “accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza” avrebbe trovato ancora ostacoli. Eppure, è così. Ma pensarlo allora avrebbe scoraggiato il cammino successivo.

E oggi non saremmo dove siamo. Ritengo che sia più produttivo impostare la sfida sul “si può” piuttosto che sul “tutto è contro di noi”. Non siamo ancora alla fine del percorso, la battaglia di civiltà è fortemente attuale. Ma serve offrire anche quel quadro propositivo e proattivo che si va progressivamente realizzando. Altrimenti si rischia la rassegnazione o la sterile contestazione, atteggiamenti che contraddicono la ben nota concretezza femminile.

Peraltro, è importante che gli obiettivi siano condivisi. L’argomento non appartiene solo alle donne. Il cammino verso il raggiungimento della piena democrazia dei diritti attende tutti coloro che realisticamente lo affrontano con la consapevolezza dei passi da compiere. La cd Questione di Genere non è un argomento a sé stante; essa rientra nel più ampio dibattito sulla democrazia e sui diritti connessi alla piena cittadinanza.

Il suo orizzonte non è più il riconoscimento giuridico dei diritti di parità e pari opportunità – di leggi ce ne sono anche troppe -, bensì l’ambizione di carattere sociale e culturale della loro compiuta attuazione. Diritto alla pari retribuzione, alla parità di trattamento sul lavoro, alla parità di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, diritti delle lavoratrici madri, congedi parentali, lotta alle discriminazioni, lotta alle violenze sono, infatti, tutti riconosciuti in specifiche norme nazionali, anche costituzionali, ed europee. Non ci sono diritti non riconosciuti, ma diritti non esercitabili.

Quel che manca è la sensibilità collettiva, non la formalizzazione giuridica. Il sistema dei diritti e dei doveri e, dunque, delle opportunità e delle possibilità non è in equilibrio, perché purtroppo abbiamo una sciocca attitudine a pensare il diritto altrui solo come una limitazione al diritto personale e consideriamo i doveri un’opzione. Ecco che si crea resistenza all’attuazione delle prescrizioni normative e si distribuiscono disomogeneamente opportunità e possibilità. Purtroppo, l’iperindividualismo di questi tempi rende ancor piùimpervia la socializzazione dei diritti e la solidarietà politica, sociale ed economica. La incertezza finanziaria porta all’estremo tali sentimenti di chiusura.

Ci basta sentirci cittadini del mondo perché pensiamo di possederlo, senza renderci conto che il mondo va vissuto non posseduto! La semplice acquisizione della possibilità di attraversarlo con un clic, di superare le distanze e le regole della fisica, potendo essere, grazie alle potenti scoperte della tecnologia moderna, qui e dall’altra parte del globo allo stesso tempo, fa perdere di vista l’infrastruttura portante dei diritti fondamentali e ci impedisce di capire che l’isolamento relazionale diminuisce le nostre capacità civiche sino alla negazione dello spazio altrui.

Il tema oggi non può essere trattato in termini di differenza di genere come dato statico, ma deve essere affrontato in chiave dinamica, guardando alla evoluzione (o involuzione) sociopoliticadel sistema e puntando a far entrare nelle coscienze la consapevolezza che rendere uguali tutti, non passa attraverso l’appiattimento delle differenze, bensì dalla loro valorizzazione in una logica di occasione e di possibilità.

La compressione di alcune libertà e l’affermazione dei doveri corrispondenti sono un costo dovuto al processo di compimento della democrazia sociale che verrà ampiamente ripagato dai ritorni che da essa ne verranno. L’atteggiamento oppositivo, infatti, non colpisce solo le donne, ma tutti coloro che cercano di entrare. I giovani, per esempio, condividono molte preclusioni con l’emisfero femminile, così come gli immigrati.

Al di là dei benefici sociali, primi fra tutti un maggiore benessere e una spinta alla crescita demografica, ci sono quelli di carattere economico, che sicuramente risultano più immediatamente apprezzabili. Facciamo un esempio pratico: gli Italiani che lavorano, pari a circa 22 milioni, ne mantengono 37 milioni. Di questi ultimi,quelli in età lavorativa sono circa il 22%, cioè otto milioni di persone, che per metà circa sono donne.

Una maggiore partecipazione al mercato del lavoro di questa parte della popolazione porterebbe un alleggerimento del carico per i lavoratori attivi, senza togliere ad essi alcunché, ma aprendo nuovi scenari di crescita. Per superare le divisioni sociali che rallentano la marcia verso una compiuta democrazia dei diritti, dobbiamo superare la paura di perdere ed emanciparci da questa visione semplicistica e profondamente ottusa che temendo la concorrenza si oppone all’apertura.

L’otto marzo (e anche dopo!) deve essere un’occasione per insediare semi di crescita culturale e di progresso sociale nei più. Non c’è da reclamare, bisogna educare ed educarci, rispolverando un po’ di valori iscritti nella nostra Costituzione da circa 80 anni.