I primi 100 giorni di Trump hanno di positivo che dovrebbero indurre quasi naturalmente a una riflessione sulla importanza del voto e sulle difficoltà della democrazia

I primi 100 giorni di Trump hanno di positivo che dovrebbero indurre quasi naturalmente a una riflessione sulla importanza del voto e sulle difficoltà della democrazia. Gli Stati Uniti sono sotto sopra. Mercati e imprese vacillano. La possibilità di prevedere scenari economici sui quali basare le proprie scelte di vita sono quasi inesistenti.

Aumenta il costo della vita. L’imprevedibilità delle sue iniziative e la temerarietà dei suoi annunci stanno mettendo l’americano medio in grande difficoltà, agevolando unicamente gli speculatori ben informati. Tanto che, a meno di tre mesi dall’inizio del mandato presidenziale, il consenso del neo rieletto Presidente è calato verticalmente. E lo stesso Trump sente di annunciare che non ambisce a un terzo mandato! Gli elettori rimpiangono un voto sbagliato. Eppure Trump molte delle cose che sta facendo le aveva annunciate. Il problema è che pochi hanno considerato la loro pericolosità. Il voto è stato massivamente determinato dalla potenza mediatica e finanziaria del Tycoon.

Qual è la morale?! Ci riempiamo la bocca di concetti come libertà, sovranità del popolo e partecipazione quali strumenti di garanzia della trasparenza delle Istituzioni, della responsabilità degli organi di governo e della coerenza dell’azione politica con l’interesse generale e con gli impegni assunti. In realtà la funzione di controllo che si svolge attraverso l’esercizio di una cittadinanza attiva non raccoglie grandi consensi. Essa implica uno sforzo. Richiede impegno, attenzione e studio.

La periodicità del voto serve proprio a dare la possibilità al popolo sovrano di promuovere o bocciare sulla base dei risultati dell’azione di governo in relazione agli obiettivi promessi in campagna elettorale. Solitamente invece ci si limita a una valutazione emotiva più che di merito e il punto di riferimento è l’aspettativa individuale soddisfatta o meno. Quindi indifferenti al quadro d’insieme e alle condizioni di contesto, lasciamo che l’unico vero strumento di potere del popolo, il voto, evapori. E così viene fuori quello che comunemente viene chiamato “voto di pancia”.

La testa riposa. Anche quando reagiamo alla delusione votando contro. Se così non fosse, non vivremmo la insostenibile irrequietezza dell’impolitico che conduce a preferire l’inesperto o l’imbonitore. In Campania nei prossimi due anni ci saranno gli appuntamenti con le elezioni regionali e politiche. La non ricandidabilità di Vincenzo DeLuca ci riporta a un virtuale anno zero.

Davanti a noi almeno 12 mesi per decidere di essere uomini e donne e non “quaquaraquà”. Primo punto, convincersi che il voto non ha valore economico perché è un bene “impagabile”. Non c’è prezzo nè promessa che ne eguaglino l’importanza. Secondo, tenere a mente l’insegnamento di De Gasperi: “La differenza tra un politico e uno statista è che il primo pensa alle prossime elezioni, il secondo alle future generazioni”. Sarebbe bello che la Campania fosse il laboratorio di una rivoluzione democratica, che riporti i cittadini da sudditi ad essere sovrani.