Il diritto alla libera stampa vieta i limiti alla espressione del pensiero

 

Ho avuto il piacere di partecipare a una interessante riflessione su “Giornalismo e Democrazia”, ospite dell’Associazione Mazziniana Italiana e del Partito Repubblicano. Ho sentito nell’aria il profumo dimenticato di quel sentimento militante che si forma sulla condivisione dei pensieri, delle idee, delle azioni e si radica sui valori dell’appartenenza prima ancora che su quelli di unità nazionale e libertà.

Il confronto, stimolato da questa significativa base ideale, ha posto problemi per ricercare soluzioni, secondo la buona regola della politica virtuosa, partendo da tre concetti: 1. la democrazia dei diritti si fonda tra gli altri sul principio fondamentale della libertà di pensiero e di espressione. Tale libertà rappresenta il pilastro della comunicazione; 2. il diritto alla libera espressione del pensiero si accompagna al dovere di garantire la verità di quanto si afferma; 3. la nostra Repubblica parlamentare si fonda sul principio della rappresentanza. Il popolo è sovrano ed esercita tale potere mediante il conferimento di una delega agli eletti alla gestione della cosa pubblica, che richiede consapevolezza.

L’analisi ha preso avvio dalla indiscutibile crisi della democrazia dei diritti e della democrazia delle idee. Due fenomeni consustanziali, la cui matrice comune è la dilagante disconnessione dalla realtà e la crescente devalorizzazione della vita. Viviamo in un’epoca di precarizzazione delle relazioni sociali, politiche ed economiche. La globalizzazione inciampa sulla messa in discussione delle basi del diritto internazionale. E il mondo crolla sotto le bombe belliche ed economiche, ritrovandosi in una condizione di insicurezza e instabilità.

A tutto questo si aggiunge la forte ritrosia a praticare le vie della partecipazione democratica e la diffusa arroganza della ignoranza, che non spinge i più a uno sforzo di conoscenza. Eppure la nostra democrazia parlamentare, fondata sul principio della delega di rappresentanza alla gestione della cosa pubblica, presuppone la conoscenza da parte del delegante delle condizioni di partenza, degli obiettivi e dei mezzi per raggiungerli e delle capacità dei candidati. La sovranità del popolo è dogmatica, non pratica, se l’esercizio del potere non viene canalizzato consapevolmente.

Consideriamo che i presidi a tutela della cittadinanza non godono di grande fortuna. Mediatore Europeo e Difensori civici sono privi di potere, le petizioni non obbligano a una riposta operativa, ma solo all’ascolto, il diritto di accesso agli atti è burocraticamente gestito con metodo inefficiente, l’iniziativa popolare non decolla…. Cosa può aiutare a superare, dunque, la nebbia che rende poco trasparenti i palazzi dove operano i “delegati del popolo”?! Una schietta e competente azione da parte dei professionisti della informazione.

I giornalisti, coloro che, secondo la definizione della Treccani, hanno il compito di diffondere le notizie attraverso giornali, tv e ogni altro mezzo (!), e che hanno il dovere della verità, della lealtà e della buona fede, da sempre, anche prima della categorizzazione della loro funzione e ancor prima della carta stampata, quando c’erano gli urloni, sono stati, in tal senso, sempre funzionali alla democrazia. Appartengo alla categoria di coloro che ritengono il giornalismo un bene pubblico, componente chiave della più ampia concettualizzazione dell’informazione come bene pubblico. Esso è, infatti, espressione di quel diritto alla informazione, sancito dalla nostra Carta costituzionale, all’art. 21, laddove si legge che: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, e del corrispondente dovere a “garantire a tutti il diritto alla verità sostanziale dei fatti”. Il giornalismo, quindi, non è solo funzionale alla democrazia ma è geneticamente democratico. Il pluralismo delle idee si pratica in entrata e in uscita.

Il diritto alla libera stampa vieta i limiti alla espressione del pensiero, salvo quando esso leda un diritto equivalente o superiore come quello alla privacy o alla dignità o ancora alla verità, ma contiene anche il dovere di rispettare che si formi l’altrui pensiero diffondendo notizie e non opinioni. Il giornalismo si differenzia, infatti, dall’opinionismo, nel quale spesso cade prevalentemente in ragione della questione della sostenibilità economica dell’editoria tradizionale. Sono due mestieri diversi. Il primo risponde a una domanda etica di conoscenza ed è bidirezionale; il secondo è unidirezionale e di parte, in quanto rappresenta la mia libertà di dire ciò che penso. Nella comunicazione bisognerebbe essere più attenti a marcare il confine tra i due mestieri. Accade, però, con l’avvento del web, che la trasmissione delle notizie, vere o false che siano, oggi viaggi sul canale della deregulation quasi senza filtri. Il giornalismo contemporaneo diventa per questo sostanzialmente antidemocratico. Apparentemente le informazioni sono più accessibili, nella realtà la mole di dati immessi in rete e la possibilità per chiunque di lanciarli nell’etere, confonde le idee e nasconde la verità.

Il giornalismo “vero” è perdente nella competizione con un simile sistema di diffusione e di comunicazione. Le dinamiche di adattamento hanno comportato, da un canto, la trasformazione della carta stampata in luogo di approfondimento, che però appassiona sempre meno, come dimostrano i numeri sulle copie vendute e le chiusure delle edicole; e dall’altro, la introduzione di format televisivi nei quali le notizie acquisite altrove vengono fatte a brandelli dagli ospiti o dubitate da scoop e indiscrezioni. La manipolazione delle informazioni al pari della disinformazione comporta conseguenze di vasta portata in termini di diritti umani e di valori democratici. Essa rappresenta una minaccia per la libertà di pensiero, il diritto alla riservatezza e il diritto alla partecipazione democratica e compromette la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche e nei media. La digitalizzazione è progresso, determina semplificazione e superamento di barriere fisiche, ma è altro dai sistemi del passato e, in quanto tale, necessita di una disciplina ad hoc, che, senza imbrigliarla, renda governabili i suoi processi.

Con l’Intelligenza Artificiale il dibattito si è infiammato. Eravamo ancora alle prese con la ricerca di strumenti per gestire la manipolazione delle informazioni, per rendere accessibili le fonti, per difenderci dalla profilazione per algoritmi e ci siamo ritrovati a dover fronteggiare la falsificazione delle identità e le sue conseguenze. Tutto questo, nel bene e nel male, ha bisogno di senso. Non si sfugge al progresso e sarebbe da stolti pensare di farlo, ma non si può diventare schiavi delle nostre creazioni. Finché ci sarà una politica debole, però, non ci potrà essere una disciplina responsabile e responsiva, perché, fino a quando non ci sarà un ritorno al confronto identitario tra culture, i nostri “delegati”, gli eletti dal popolo, faranno cattivo uso della sconfinata dimensione del web per raccontare verità distorte, per alimentare lo scontro, la negazione dell’altro, la deresponsabilizzazione, a discapito del buon giornalismo e della democrazia.

L’Unione Europea ha dedicato una tempestiva attenzione al tema, con vari atti legislativi su servizi digitali, cibersicurezza, resilienza delle infrastrutture digitali, utilizzo di nuove tecnologie, in quanto proteggere i processi democratici dagli effetti dannosi della manipolazione delle informazioni e delle ingerenze da parte di attori terzi e della disinformazione, senza impedire un dibattito democratico aperto, è una priorità dell’UE e un obiettivo fondamentale del Consiglio. Ora c’è bisogno che lo Stato recepisca. Regolamentare non è contro, ma a favore della garanzia dei diritti. La democrazia è un’avventura bellissima, non senza insidie.

La cosa importante è viverla. Il giornalismo è un compagno di viaggio indispensabile. E, come diceva De Gasperi, dobbiamo agire sapendo che, “seppure il metodo democratico sia il migliore che il consorzio umano abbia inventato, … (esso) è tutt’altro che semplice”, e che, “al confronto delle esperienze del passato, risulta essere il meno peggio che può toccare al mondo”.